Quattro chiacchiere con Camilla Cardini, in arte Camiciak, sviluppatrice seriale di rullini e migratrice su rotaia

Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme.” (Charles Bukowski)

Camilla Cardini, classe 1996, in arte Camiciak, è una giovane artista nata e cresciuta in Brianza che non ama etichette e categorie. Tutto quello che sa circa la fotografia analogica lo ha imparato da autodidatta, sviluppando e stampando metodicamente rullini nella lavanderia di casa. Le piace definirsi una sviluppatrice seriale di rullini, una migratrice su rotaia che si alimenta a carbone e a benzina.

Attualmente studia architettura presso il Politecnico di Torino, ma le sue vere passioni sono al di fuori delle quattro mura dell’Università.

Le sue fotografie hanno la capacità di trasportare l’osservatore in un’Italia antica…un’Italia in bianco e nero, fatta di pesanti locomotive, borghi ispidi, strade silenziose, stazioni polverose, sguardi cupi e mezzi d’altri tempi, un po’ come in uno di quei film neorealisti che raccontano la delicata osservazione della vita quotidiana.

Dai suoi scatti abbiamo percepito la libertà, la voglia di viaggiare e la gioia di vivere pienamente la vita che caratterizza una persona bramosa di emozioni. Stregati e incuriositi dalle sue fotografie, abbiamo deciso di incontrare Camiciak per scoprire chi si cela dietro questa “migratrice su rotaia”.

©Camilla Cardini – Camiciak

Raccontaci la tua personale storia della fotografia: come è nata? Che rapporto hai con essa?

Ho conosciuto la fotografia solo 5 anni fa, a 20 anni, quando avevo già in parte maturato la delicata consapevolezza del tempo che passa, veloce e rumoroso quanto i treni in transito in una silenziosa stazioncina di campagna. A pensarci bene, penso che questa passione si sia sviluppata proprio grazie ai treni; in un momento delicato della mia vita, che io definisco il mio medioevo oscuro, trascorrevo molte ore in stazione, a guardare le persone salire su quei pesanti mezzi di metallo, fantasticando su quale fosse la loro storia. Ed ecco che un giorno ho deciso di portarmi dietro l’unica macchinetta che avevo in casa, una compattina digitale da 3 mpx, che qualcuno aveva regalato alla mia famiglia. Da quel momento ho iniziato a fotografare le scene che vedevo in stazione: gente che correva per prendere il treno, folle inferocite davanti agli scioperi, treni che andavano e tornavano. È proprio in quel momento che nasce questo amore, come nei romanzi più smielati, sulla banchina di una stazione ferroviaria. 

Che cosa rappresenta per te il mezzo fotografico?

Direi che ci sono due tipi di risposta; la prima, più classica, è che il mezzo fotografico rappresenta il prolungamento dei nostri occhi. Forse banale, ma spesso fraintesa. La seconda, più personale, è che il mezzo fotografico rappresenta in tutto e per tutto una parte di noi. Ho sempre con me qualche macchinetta fotografica, perché senza mi sento fragile, incompleta, persa. Il mezzo fotografico mi aiuta a sentirmi meno timida e più sfrontata. Lo uso come scusa per conoscere nuove persone… ma forse una scusa non è, perché senza non riuscirei neanche ad iniziare una conversazione. È una sorta di tramite, di prolungamento del cuore e delle emozioni, oltre che degli occhi.

©Camilla Cardini – Camiciak

Come mai hai scelto proprio un mezzo analogico, la pellicola?

In realtà tutto è iniziato con il digitale: dopo appena un anno e centomila scatti, mi sono semplicemente annoiata. Non avevo più stimoli, mi sembrava tutto troppo semplice: scatti 1000 foto, ne salvi 20, te ne piace una, se va bene. Ho conosciuto poi una ragazza che aveva con sé una Fujica STX 1, ma non sapeva usarla, e così me l’ha prestata per capire se riuscivo a combinarci qualcosa. Inutile dire che è stato amore a prima vista.

©Camilla Cardini – Camiciak

Ti definisci un’autodidatta: raccontaci del tuo percorso.

Correva l’anno 2017 e arriva nelle mie mani, appunto, questa Fujica; tutta emozionata mi fiondo a comprare il più economico rullino disponibile sul mercato, un Kodak Colorplus 200 (bei tempi quando costavano 3 euro). Così nel giro di due settimane finisco il mio fantomatico rullino e mi reco dal fotografo del mio paesino per chiedere il prezzo dello sviluppo: “35 euro escluse fotografie“. mi disse. Tornai a casa allibita, ma non rammaricata. Le volevo, a tutti i costi! Così iniziarono settimane di ricerca su forum, libri e video e mi decisi che avrei sviluppato in casa. Su qualche forum di fotografia mi sentii rispondere che non aveva senso iniziare con il colore; troppo difficile per una persona inesperta, “non ne valeva la pena”. Ma vista la mia fotta (un sentimento prepotente e irrazionale, un mix tra convinzione dei propri mezzi e forza d’animo), scrissi una mia guida, comprai gli acidi C-41 e sviluppai per la prima volta. E, incredibilmente, uscì! Bisogna dire che la mia lavanderia oscura ai tempi non esisteva; sviluppavo nel bidet, inginocchiata per terra sul tappetino del water. Facevo asciugare i rullini nella doccia o in camera mia. Scansionavo con una scatola e la mia reflex. Dopo qualche anno e qualche ammodernamento del mio modus operandi (come l’essersi trasferita in lavanderia), è nato insieme ad altri due amici, Daniele e Leonardo, il progetto di Spazio Nocivo, un laboratorio urbano di fotografia analogica che si propone di insegnare e divulgare questa bellissima passione.

P.S. Racconto un aneddoto sempre divertente riguardo al caricamento del rullino nella spirale. Questa operazione deve essere fatta al buio totale: quindi, sprovvista di un luogo consono e oscuro, mi chiudevo nell’armadio e caricavo, con non poca fatica, la pellicola sulla spirale, per poi chiuderla al sicuro nella tank. Le prime volte penso di essere rimasta chinata in quell’armadio, in posizione fetale, per almeno 1 ora.

©Camilla Cardini – Camiciak

Pensi che le tue fotografie possano esprimere le stesse emozioni anche in digitale?

Ho imparato che non è il mezzo che fa, ma i nostri stati d’animo, le nostre emozioni e la nostra personalità. Ognuno è libero di esprimere la sua arte con i mezzi a lui più appropriati. Sicuramente il mio è la pellicola, per il gusto di scoprire a posteriori cosa ho scattato, di far nascere con le mie manine quei negativi e quelle stampe, di sentirmi parte fondamentale dell’intero processo fotografico (dalla bobinatura della pellicola alla stampa); la fotografia analogica non mi annoia mai, perché richiede curiosità, passione, sperimentazione e sete continua di conoscenza. A volte, per qualche lavoro legato al mondo fotografico, scatto ancora in digitale, ma mi accorgo, e lo vedo, che con questo mezzo non riesco ad esprimere appieno la mia creatività. E poi, diciamocela tutta, i ferrovieri del vapore non esprimerebbero il loro vero spirito in digitale!

©Camilla Cardini – Camiciak

Le tue fotografie ritraggono principalmente treni, stazioni, auto d’epoca: come mai questa scelta? Che cosa ti affascina di questo mondo?

Domanda difficile; forse mi affascina l’immaginarmi come sarebbe stato vivere in un’altra epoca, rapportandola comunque al nostro presente. Sono un’indomabile nostalgica e amante di tutto ciò che è meccanico: treni, auto, macchine fotografiche e qualsiasi apparecchio che pone le sue basi nel fantastico mondo della meccanica. Sicuramente non posso ricostruire un periodo che non ho mai vissuto, ma posso immaginarlo e contestualizzarlo nel nostro presente, così come mi si pone davanti, senza finzioni o artifizi; semplicemente mettendo a fuoco, o cercando di mettere a fuoco, e scattando.

©Camilla Cardini – Camiciak

Osservando i tuoi scatti ci siamo sentiti trasportati in un’Italia d’altri tempi: cosa vorresti trasmettere con i tuoi scatti?

La vita arruffata, il tentativo di immergersi nella quotidianità altrui, la filosofia del viaggio lento e dal sapore antico. Ma anche il saper guardare con occhi sempre nuovi quello che ci si pone davanti, magari leggendolo sotto diverse interpretazioni, dimenticandosi le regole della fotografia e scattando solo con tutti noi stessi.

©Camilla Cardini – Camiciak

Alle spalle hai la pubblicazione di 5 fanzine: come mai la decisione di questo formato? Pensi che ad oggi in Italia sia efficace per un fotografo pubblicare una fanzina?

Le fanzine rappresentano un po’ uno stile di vita; sono cresciuta con la cultura hip-hop, che pone le sue basi nell’espressione della ribellione e della creatività, del sapersi inventare. Questi libretti autoprodotti sono un tipo di pubblicazione che riflette chi siamo in uno specchio senza filtri, proponendo prospettive alternative e modi inconsueti di osservare e interpretare il mondo. Pubblicare una fanzina non è efficace, quindi, se il primo pensiero è quello di guadagnare. “L’arte è un lavoro sporco, qualcuno lo deve pur fare”, ma ci sono diversi pensieri che racchiudono il fare arte: il guadagnarci, con l’arte, e il divulgare arte a scopi informativi e “passionali”. Questi piccoli libretti auto-prodotti rientrano nella seconda categoria, poiché nascono da un forte spirito di iniziativa e dall’idea che si possa creare qualcosa con le proprie mani, che riprende anche il concetto stesso di sviluppare pellicole e stampare fotografie in casa. Diciamo che è tutto sempre legato da quel filo rosso chiamato passione.

A proposito di fanzine: abbiamo avuto l’occasione di visionarne una, “L’albero degli zoccoli”. Un aspetto che ci ha incuriosito è stato l’accostamento di musica alle fotografie: che rapporto pensi che abbiano queste due forme di arte?

La musica ha senso, come tutte le forme d’arte, nel momento in cui ti comunica e ti lascia qualcosa. Fotografia e musica sono due linguaggi differenti, sì, ma che in un certo senso corrono sugli stessi binari. Accostare alle fotografie una canzone, che può essere quella che sto ascoltando in quel momento, o quella che avevo nella testa quando ho scattato quella fotografia, aiuta ad interpretare meglio una scatto, ad immergersi ed immedesimarsi nel caos dei pensieri altrui. Viviamo in un’epoca in cui la maggior parte delle persone scrolla velocemente gli scatti, mettendo un furtivo like, se ha voglia; ma se ci fermiamo un attimo e proviamo a leggere quell’immagine, magari ci balenano nella mente domande del tipo: “Cosa pensava o cosa provava chi l’ha scattata?”. E in questo la musica aiuta, o almeno penso. 

Se potessi descrivere la tua fotografia con tre parole, quali sarebbero e perché?

Passione, curiosità, carbone. La fotografia analogica ti insegna che non esiste la certezza, che il mondo in cui viviamo è un continuo domandarsi come, dove, quando e perché. La passione e la curiosità ci spingono a superare i limiti che ci siamo posti e ci aiutano a capire quanto è bello e vario il mondo che ci circonda. E la fotografia ci aiuta in ciò, perché esprime e condivide i diversi punti di vista. Il carbone invece…beh, perché amo fotografare le locomotive a vapore e i ferrovieri che praticano ancora questo antico mestiere!

©Camilla Cardini – Camiciak

Chiara Cagnan